Duemila cristiani siriani circondati e prigionieri. Duemila cristiani che rischiano di venir sgozzati se continueranno a esporre i simboli della fede e non imporranno il velo islamico alle proprie donne.
L’allarme arriva da Knayem, Yacoubieh e Jdeideh, tre parrocchie del fiume Oronte dove la cristianità è di casa da duemila anni.
A fare arrivare in Italia l’appello, durante una conferenza al Centro Culturale di Roma è il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali. Legge una lettera inviatagli dal Custode di Terra Santa Pierbattista Pizzaballa. Scandisce gli ordini impartiti dai capi jihadisti a padre Hanna e padre Dhiya, i due francescani caduti prigionieri assieme ai fedeli di tre villaggi stretti tra la città di Idlib e la frontiera turca.
«Tutte le croci debbono sparire. È proibito suonare le campane. Le donne non debbono uscire di casa senza coprirsi la faccia e i capelli. Le statue devono sparire. In caso di inadempienza, si applicherà la legge islamica. In sostanza: chi non si adegua o se ne va o viene fatto fuori». In quell’ultimo terribile aut-aut è riassunta la scelta imposta non solo ai Cristiani dell’Oronte, ma a quelli di tutta la Siria.
Padre Hanna Jallouf, il parroco di Knaye conosciuto dai fedeli come Abu Hanna, l’aveva capito da tempo. L’avevamo incontrato nel settembre 2012 al memoriale di San Paolo a Damasco. Era arrivato lì dopo un viaggio fortunoso e drammatico durato tre lunghissimi giorni. Un viaggio durante il quale aveva visto un ordigno scoppiargli a fianco dell’auto e aveva trattato passaggio e incolumità personale prima con i ribelli e poi con i militari.
Ma a trattare c’era abituato. Lo faceva dall’estate del 2011 quando i ribelli erano entrati a Knaye seminando il terrore e massacrando 83 soldati governativi. «È stata una strage terribile e io l’ho vista con i miei occhi. Prima hanno tagliato la testa al comandante e l’hanno issata sulla terra dell’orologio, poi ne hanno tagliate altre cinque e le hanno deposte davanti alla sede del partito. Ho visto – aveva raccontato al Giornale – cose che non dimenticherò mai, ma ho anche dovuto badare alla mia comunità. Ho incontrato il capo dei ribelli, ho negoziato, l’ho fatto salire in macchina sono andato a cercare assieme a lui i fedeli di cui avevamo perso le tracce».
Padre Hanna s’era abituato a convivere con il terrore. E sapeva che al peggio non c’è limite. «Cerchiamo di restare neutrali, ma è difficile avere fiducia in loro. Non sono un esercito di liberazione, sono bande che si muovono alla rinfusa. Più parlo con loro più comprendo quanto siano pericolosi. Moltissimi sono d’ispirazione integralista, almeno il 40 per cento sono fanatici arrivati da Yemen, Iraq e Libano e finanziati da paesi stranieri. Sono la nostra più grande sventura».
Quelle parole del settembre 2012 suonano ora come una lucida profezia. Tra settembre e dicembre di quest’anno i militanti alqaidisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante hanno combattuto e messo in fuga i capi ribelli con cui padre Hanna si sforzava di trattare.
Ora i nuovi arrivati, più fanatici dei fanatici, dettano legge a Knaye, Yacoubieh e Jdeideh. E con loro al potere s’è spenta anche la voce di Abu Hanna. Il suo telefono è muto da molti giorni. Così come non ci sono più notizie delle dodici suore rapite dai miliziani a Malula. Una cappa di plumbeo silenzio avvolge i villaggi cristiani dall’Oronte. Dietro a quel silenzio attendono duemila vite in pericolo. Se verranno spazzate via l’Occidente e la Cristianità perderanno le proprie radici. Nell’indifferenza pusillanime di un’Europa assente e lontana.